Domande ‘a completamento’ o ‘a risposta obbligata’ (effetto Topaze)

(Dall’Unità ArAl 12, pag. 17)

Esempio 1:
Insegnante «Prima di cominciare devi fissare una regola. Devi stabilire il numero che… ?»
Alunno «… metti per primo».
Insegnante: «Bene»

Esempio 2:
Insegnante «Quindi gli elementi sono messi senza una… ?»
Coro «… regola!!!»
Insegnante «Bravi!»

Questi interventi contengono in sé il suggerimento ‘telefonato’ di ciò su cui gli alunni si devono concentrare. Siccome la formulazione la organizza l’insegnante, questo comporta la certezza che è proprio lì che bisogna andare a parare. Se un alunno avesse in mente una risposta diversa la considererebbe certamente sbagliata perché lontana dalle attese dell’insegnante. Domande di questo tipo sono riferite a ‘microuniversi chiusi’: gli alunni degli esempi hanno dato proprio quelle risposte (banalmente corrette) e non altre perché le domande costituivano l’ennesima riformulazione di quesiti ‘a risposta obbligata’. L’esempio 2 si riferisce al caso limite in cui la risposta si riduce ad un’unica parola. Domande come queste creano dipendenza dall’insegnante e non aprono all’argomentazione, in quanto lasciano spazio solo a frammentari prodotti del pensiero.
Domande come:
«In conclusione si può dire che queste lettere sono la traduzione di… ?»
«Insomma, il calcolo si può fare anche con… ?»
«Quindi questo è un procedimento più… ?’»
comportano per l’alunno l’idea che chi le formula sappia perfettamente quale sia l’unica continuazione possibile. L’attenzione si allontana dagli aspetti concettuali e si concentra sulla preoccupazione di capire cosa voglia l’insegnante.
Si consiglia di formulare una questione in modo da lasciare agli alunni la responsabilità di organizzare l’argomentazione (che potrebbe anche rivelarsi sbagliata); per esempio:
«Riprendi il filo di quello che stai dicendo e prova ad arrivare ad una conclusione» o
«Per favore spiega con altre parole quello che vuoi dire».

L’effetto Topaze cui si allude nel titolo, che illustra molto efficacemente la situazione che stiamo descrivendo, è un costrutto di Guy Brousseau (mancano pagine significative in italiano… ndr). Il nome è tratto dal titolo della commedia ‘Topaze’ di Marcel Pagnol, andata in scena per la prima volta nel 1928. Un precettore sta facendo un dettato di francese a casa di un allievo. Il tema è: capire dal contesto se una certa parola è detta al singolare o al plurale (nel francese parlato non si pronuncia la –s del plurale) in modo da arrivare alla scrittura corretta di quel termine. La parola in questione è ‘moutons’ (montoni). L’allievo non sa che pesci pigliare e il precettore gli gira attorno sussurrando ‘moutons’ poi, non vedendo risultati, insiste con ‘moutonss’… ‘MOUTONSSS’. Finalmente l’alunno scrive la –s alla fine della parola. Brousseau vuol dire: in casi come questo l’insegnante non mostra attenzione verso l’apprendimento dell’allievo ma vuole fare in modo che si raggiunga comunque l’obiettivo prefissato, indipendentemente dalle modalità in cui ciò avviene e dalla qualità della comprensione da parte dell’alunno.

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